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La cessione di un NFT in cambio di criptovalute crea imponibile fiscale

Con sentenza n. 8269 del 28 febbraio 2025, la Corte di Cassazione si è espressa sul caso di un artista che ha ceduto le sue opere in formato digitale mediante un NFT (Non Fungible Token), ricevendo in cambio un corrispettivo per la cessione, e delle royalties ai trasferimenti successivi.

Per il contribuente, essendo il controvalore della transazione di vendita degli NFT una moneta virtuale (ether), il reddito prodotto attraverso tali valute non è riconducibile né al concetto di danaro né al concetto di beni in natura, ed esulerebbe così rispetto alla nozione di reddito imponibile per come veicolata tramite il citato art. 54, comma ottavo, del TUIR.

Per la Cassazione, però, le cose sono ben diverse.

I fatti

Per comprendere come i giudici della Suprema Corte siano giunti alle proprie valutazioni, ricordiamo come il contribuente sia un artista che pratica cybergraphic, realizzando opere iconografiche che non hanno un supporto materiale, ma sono raffigurate ed esistono solo in formato elettronico-digitale. Data la loro particolare natura virtuale, le opere d’arte sono incorporate in NFT, un token che ne certifica la titolarità, l’autenticità e l’unicità.

Come introdotto, il contribuente tra il 2021 e il 2022 ha venduto opere d’arte ricevendo in cambio criptovalute. Ritenendo che non costituissero reddito imponibile, il contribuente non ha dichiarato al Fisco i ricavi da lui realizzati mediante la commercializzazione degli NFT incorporanti le sue opere grafiche, anche se i redditi, convertiti in valuta corrente, erano ampiamente al di sopra delle soglie di punibilità stabilite dal legislatore in tema di violazione del precetto di cui all’art. 4 del d.lgs. N. 74 del 2000. Insomma, per il contribuente i redditi non dovevano essere dichiarati perché non rientravano in nessuna delle categorie di reddito indicate dall’art. 53, comma 2, letter b) del TUIR.

La disposizione qui ricordata, infatti, prevede espressamente che sono reddito da lavoro autonomo (e come tali suscettibili di generare imposte)

i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali.

Per i giudici della Suprema Corte è indubbio che fra le opere dell’ingegno debbano essere ricomprese anche le opere di cybergraphic. Data la particolare natura virtuale dell’opera, la stessa risulta essere incorporata nell’NFT che, appunto, ne costituisce certificato di proprietà e di autenticità.

L’eventuale reddito che deriva all’autore dell’opera artistica dalla cessione dello strumento che la contiene è sicuramente un reddito: per i giudici, infatti, così come non vi è dubbio che genera fonte di reddito imponibile la compravendita di titoli rappresentativi di merci, deve ritenersi parimenti che analoghi effetti abbia il traffico di altro, ma analogo, genere di strumenti, ove gli stessi siano rappresentativi di beni patrimonialmente valutabili, se lo stesso commercio è realizzato in termini economicamente rilevanti.

Per la Cassazione, è infondato anche l’ulteriore motivo di ricorso del contribuente, che ha indicato come erroneo l’assunto fatto proprio dal tribunale secondo cui non è possibile qualificare in alcune delle categorie reddituali previste dall’art. 54 co. 8 del TUIR i proventi da lui conseguiti mediante la commercializzazione degli NFT incorporanti le sue opere di cybergraphic perché le relative transazioni operate prevedono come moneta di scambio una cripotvaluta (ether).

Criptovalute come reddito imponibile

Ebbene, il Collegio ritiene che il meccanismo sia simile a quanto avviene nel caso in cui il reddito conseguito sia espresso non in termini monetari ma sia egualmente costituito da un bene avente valore economico, per cui sia possibile – mediante un procedimento di stima monetaria – la riconduzione ad un valore suscettibile di essere quantificato tramite il riferimento ad una moneta corrente. Dunque, il relativo valore, una volta operata la conversione in moneta, deve costituire reddito imponibile.

Una tale operazione è evidentemente riconducibile anche nel caso della criptovaluta su Ethereum, che ha un mercato in cui riceve una valutazione in moneta corrente. Il che, proseguono i giudici, fa sì che il valore della criptovaluta abbia una rilevanza economica e che pertanto il suo ammontare sia idoneo a costituire reddito imponibile, soggetto a dichiarazione e, poi, a tassazione.

A conclusione del primo motivo di ricorso si formula così il principio di diritto secondo cui in linea astratta, integra gli estremi del fumus delicti, nella specie si tratta dell’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, legittimante la adozione delle opportune misure cautelari reali, la omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi dei proventi, conseguiti tramite l’accredito di criptovalute, derivanti dalla cessione di opere d’arte o comunque dell’ingegno, digitali, costituendo l’ammontare di siffatto accredito reddito imponibile ai sensi degli artt. 53 e 54 del dPR n. 917 del 1986, recante Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi, ove il valore nomale degli stessi, convertiti in valuta corrente, superi le soglie di punibilità previste dal citato art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000.

È possibile leggere il testo integrale della Corte di Cassazione, con le ulteriori valutazioni sugli altri motivi di ricorso, sul sito della Suprema Corte.

Ti invito invece a leggere il mio approfondimento sulla tassazione delle criptovalute per saperne di più, o contattarmi qui!

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