La sentenza n. 1760 del 15 gennaio 2025 ha fornito un interessante chiarimento sul sequestro probatorio di criptovalute in un processo tributario avente ad oggetto l’ammontare delle imposte evase.
La vicenda sorge con l’emissione del decreto di sequestro da parte del procuratore della Repubblica in relazione a dichiarazioni fiscali infedeli maturate nell’ambito di operazioni di trading online in materia di valute virtuali per 1,88 BTC, come corrispettivo equivalente alle imposte evase per più di 120.000 euro.
Il contribuente sottoposto a sequestro ricorreva in via cautelare dinanzi al Tribunale di Firenze, che però respingeva il riesame cautelare, ritenendo così corretto l’operato del procuratore della Repubblica.
Il contribuente ricorreva così in Cassazione, lamentando l’erroneità del decreto di convalida del sequestro, in quanto sostanzialmente finiva con l’attribuire alla valuta virtuale la natura di profitto di un rato tributario.
La difesa del ricorrente ha sostenuto che il sequestro della valuta virtuale è stato operato e convalidato proprio perché ritenuto il profitto del reato ex art. 4 d.lgs. 74/2000, per cui risultava indagato il ricorrente, affermando che se l’importo dell’imposta evasa rappresenta il profitto del reato ed è elemento fondamentale su cui si fonda il reato stesso, allora il sequestro probatorio avrebbe dovuto avere ad oggetto esclusivamente l’ammontare dell’imposta considerata evasa (nella fattispecie, 120.638,20 euro, ma non il controvalore in Bitcoin).
La decisione della Corte di Cassazione sul sequestro di criptovalute
I giudici della Corte di Cassazione che si sono espressi sul tema hanno ricordato come le criptovalute (e tra di esse, Bitcoin) siano definite dalla Direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018 come “una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”.
Dal punto di vista di diritto interno, invece, la definizione di criptovalute si ricava dall’articolo 1 del Dlgs n. 231/2007, poi modificato dal Dlgs n. 125/2019, in cui si legge che è “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente“.
Ora, in relazione alla circolazione di criptovalute, il legislatore italiano ha aggiunto la finalità di investimento. Sul punto, la Corte di cassazione ha ricordato che se le monete virtuali sono usate come strumenti di investimento finanziario, allora la negoziazione è soggetta al rispetto delle norme in materia di intermediazione finanziaria, ivi compresa la necessaria abilitazione del soggetto intermediario.
In rapporto poi ai rischi collegati all’utilizzo di Bitcoin, la Suprema Corte ha affermato come le criptovalute non siano emesse da una banca centrale o da altra autorità pubblica, e che non vige il principio nominalistico. Inoltre, le criptovalute non svolgono le funzioni tipiche della moneta, di unità di conto e riserva di valore.
Tutto ciò premesso, i giudici di Cassazione ritengono l’ordinanza del Tribunale del riesame erronea, perché conferma il decreto di convalida del sequestro probatorio per equivalente di 1,88 Bitcoin, qualificandolo come profitto del reato.
L’ordinanza è in verità carente di motivazione sul presupposto della finalità probatoria perseguita in funzione dell’accertamento dei fatti, oltre – nel qualificare come profitto del reato l’ammontare dell’imposta evasa collegata alle plusvalenze derivanti da operazioni di trading di criptovalute – errando nell’affermare la sussistenza del nesso di derivazione tra i bitcoin sottoposti a sequestro ed il reato, quando invece il profitto del reato consiste pacificamente in un’imposta evasa quantificata in poco più di 120mila euro.
Concludono così i giudici di Cassazione che il Tribunale del riesame finisce, sbagliando, con “il legittimare un sequestro probatorio del profitto del reato non diretto, ma per equivalente, perché ricadente non su moneta avente corso legale nello Stato, utilizzata per effettuare i pagamenti ed avente valore liberatorio delle obbligazioni contratte anche nei confronti dell’erario per l’estinzione del debito tributario, ma su un asset digitale rappresentato da valuta virtuale che non svolge le funzioni tipiche della moneta avente corso legale e che è soggetta a continue fluttuazioni di mercato”.